Il racconto del percorso stagionale della Samp visto da un marinaio della Gradinata Sud

a cura di Olgers

Diario di bordo 25/05/18 – Per molti versi il calcio, nella sua parte manageriale, assomiglia al poker, il gioco d’azzardo per eccellenza. La fortuna è una sua componente, come in ogni gioco di carte, ma è il bluff la caratteristica principale, ovvero l’abilità del giocatore di far credere agli avversari di avere un punto più alto o più basso, a seconda se vuole farli puntare o passare, sempre e comunque per vincere il piatto. Ne consegue che chi siede a un tavolo di poker deve essere sufficientemente glaciale, audace e impavido.

Cosa dire allora del giocatore che, nonostante abbia in mano un punto molto buono, diciamo un full agli assi, abbandona la mano, forse perché spaventato dai rilanci neppure troppo alti degli avversari? Assistendo a una giocata del genere non potremmo far altro che pensare: “ma questo è un asino! Se non rischia quando ha un punto così, cosa farà nelle altre mani? Ma perché diavolo gioca a poker?!”.
Poi però, se iniziassimo ad osservare meglio il tavolo, ci accorgeremmo che tra i giocatori ce n’è uno che inizia ogni partita con una posta dieci volte più alta degli altri e due o tre con la posta quintuplicata e, come se non bastasse, questi stessi giocatori sono stati scoperti in passato pure a barare. Sicché, in noi non potrebbe che emergere prepotente una domanda, che si lega e adombra le precedenti: “ma perché diavolo ce ne stiamo qui attorno al tavolo verde? Ad assistere a che cosa?”.
Ecco, dopo 7 anni di scudetti juventini, dopo che in Europa proseguono praticamente ininterrotti i domini del Bayern in Bundesliga, del Psg in league 1 e del duopolio Barcellona-Real in Liga, giusto per rimanere sui campionati del nostro livello, queste domande, volenti o nolenti ci continuano a ronzare nella testa. Ma se i più di noi possono rispondere che a muoverci è la passione incondizionata, l’abitudine e l’amicizia, quando ci chiediamo perché le presenze allo stadio diminuiscono e perché latita il ricambio generazionale, non è forse tra le pieghe di questi interrogativi che troviamo la risposta?
La coda del campionato è amara. E non certo per la sconfitta-farsa con la Spal.

SPAL – Sampdoria 3-1: la partita in 10 foto

 

Diario di bordo 16/05/18 – Lo stile dipende fondamentalmente dal gusto e dalla misura. Non è innato, ma lo si sviluppa nel tempo, con un lavoro selettivo. Lo stile non va sottovalutato, perché non è un elemento accessorio delle persone ma spesso ne è l’essenza, strettamente legato all’identità, come una firma o un’impronta, e al senso di rispetto che genera negli altri, fino ad assumere la forma di esempio negativo o positivo. All’indomani di Sampdoria-Napoli, oramai povera di contenuti sportivi, si è voluto porre l’accento sui cori della Gradinata Sud nei confronti degli ospiti partenopei. Cori vecchi e offensivi, il cui peccato originale è quello di essere troppo specifici e articolati rispetto ai canonici “vaffanculo”, “pezzi di merda” e “figli di puttana”, che in genere si odono negli stadi senza farci troppo caso.

È inevitabile, del resto: laddove c’è rivalità scatta l’insulto e la provocazione. E in ambienti di massa, tutto questo non può che venire espresso attraverso slogan, che per loro natura scadono sempre nella discriminazione.La polemica mediatica, dunque, ha proseguito ciò che era già andato in scena sul campo, contrapponendo da una parte la necessità di fare rispettare una regola etica imperfetta (chi può stabilire dove l’insulto è nei limiti dello sfottò e dove diventa infamia di pessimo gusto?) e dall’altra l’orgoglio di difendere il proprio diritto d’insultare, come avviene impunemente in altre piazze con gli stessi cori (Juventus e Lazio, per esempio) o con cori di simile tenore (Napoli, “alluvione, portali via!”).

Rivendicazioni legittime, nulla da eccepire. Ma quello che mi chiedo io, da tifoso sampdoriano, è: davvero vogliamo difendere il diritto di poter esibire uno stile di tifo di questo tipo? Davvero ci sta così a cuore insultare i nostri rivali nella maniera più bassa, trita e ritrita oltretutto? Davvero vogliamo essere come loro? Non sarebbe meglio spendere le energie per elaborare uno stile che ci distingua dagli altri? Uno stile migliore, sempre offensivo, ma più ironico e tagliente? Ecco, mi piacerebbe che tutti i tifosi doriani, al di là dei fiumi di retorica e ipocrisia, cogliessero l’occasione per riflettere su questo. Se non l’hanno già fatto.

Sampdoria – Napoli 0-2: la partita in 10 foto

Diario di bordo 10/05/18 – Come si può facilmente intuire anche senza essere linguisti, il termine dirigenza, tanto nelle cariche istituzionali quanto in quelle aziendali, indica l’organo deputato a condurre e guidare le società. Questo ruolo non si limita né si esaurisce nel prendere decisioni, investire risorse, avvallare progetti e tutto ciò che concerne gli aspetti puramente pratici di una gestione, ma ha anche il compito comunicativo di dare la direzione alla volontà della società che rappresenta e alle persone ad essa legate.

L’epilogo di Sassuolo-Sampdoria, e quindi della lotta per un posto in Europa League, ha confermato quella che è stata la carenza più evidente (e grave) degli ultimi mesi del club blucerchiato: la voce della dirigenza. Né il presidente Ferrero, né i vari direttori e avvocati alle sue dipendenze hanno mai espresso in modo fermo e inequivocabile l’intenzione di raggiungere quel traguardo, o quanto meno battersi con tutte le forze fino all’ultimo respiro. E nemmeno è mai stato registrato un intervento pubblico di sprone alla squadra nei momenti di rilassamento o un coinvolgimento dei tifosi. Qualcosa, insomma, che comunicasse a tutto l’ambiente il desiderio di agguantare quel sogno chiamato Europa.

In pratica, è sembrato come se la squadra si fosse ritrovata per sbaglio a metà campionato a lottare per un qualcosa che non era preventivato, al di sopra delle proprie aspettative. E la dirigenza, anziché sedersi a un tavolo e rielaborare il progetto stagionale alzando l’asticella delle ambizioni, abbia deciso di restare inerte ad osservare gli eventi, indecisa o forse addirittura impaurita dagli sviluppi che poteva prendere. Tutto ciò si è tradotto in prestazioni in campo prive di nerbo, in presenze allo stadio fiacche e in un sogno andato mestamente in frantumi. Un vero peccato. E un brutto segnale. Perché chi ha fame, chi ha sogni di gloria, non si lascia sfuggire le occasioni, non indugia, non si ferma a pensare: “quest’opportunità è arrivata prima del previsto”, ma la coglie al volo e si fa beffe dell’invidia altrui. C’è da sperare che sia soltanto un peccato d’inesperienza o di eccessiva prudenza. Ma già lo si disse per Garrone…

Sassuolo – Sampdoria 1-0: la partita in 10 foto

Diario di bordo 2/05/18 – Ricordo un episodio in cui fu protagonista Mihajlovic. Il Mihajlovic calciatore, intendo, anche se non sono sicuro che indossasse la casacca blucerchiata in quella circostanza. Ebbene, il serbo si stava preparando a calciare una punizione in porta, il punto di battuta era a una ventina di metri, quando un avversario andò a protestare e gli spostò il pallone due metri più indietro. Si accese una piccola disputa tra di loro, con l’arbitro nel mezzo che mal si raccapezzava. Finché Sinisa, spazientito, prese la sfera e se la portò cinque metri più indietro, mettendo fine alla discussione. Poi l’arbitro fischiò e il serbo piazzò una delle sue famigerate “bombe” che gonfiò la rete. L’episodio mi è tornato alla mente ragionando su mister Giampaolo, che a settembre si è ritrovato con l’attacco praticamente da ricostruire, privato dei bomber Muriel e Schick (11 reti a testa nella scorsa stagione) e del trequartista titolare, Fernandes (5 gol). Al loro posto Zapata, Ramirez e Caprari, ossia: buone potenzialità, ma forti incognite sulla resa. Il risultato? La posizione in classifica è migliorata e il numero di reti segnate è passato da 49 a 55. E mancano ancora 3 partite. E siamo ancora in corsa per un piazzamento Uefa. Se poi ci aggiungiamo che al festival del gol quest’anno ha dato un buon contributo anche il centrocampo con 9 reti (Barreto e Praet 1, Linetty 3, Torreira 4), rispetto ai 4 centri del 2016/17 (Praet e Linetty 1, Barreto 2), ecco che le qualità del mister diventano lampanti agli occhi di tutti, quasi come le capacità balistiche di Mihajlovic in quella famosa partita in cui si portò il pallone indietro di 5 metri.Lo so, c’è anche chi, nell’ambiente, continua a non apprezzare Giampaolo. Forse perché ha sempre avuto verso di lui dei pregiudizi. O forse non gli piace il gioco che propone, forse non ama il suo modo di comunicare, forse non se ne capisce un cazzo di calcio o forse è un intenditore sopraffino che va oltre le apparenze e pure veggente perché sa già che, prendendo il Maran di turno o convincendo Guardiola a trasferirsi al Mugnaini, nel giro di due anni andremo a giocarci lo scudetto.Per carità, il mister, come tutti, ha dei margini di miglioramento e ha la sua dose di responsabilità per ciò che non è andato bene in questa stagione. Ma io mi metto già tra gli scontenti se quest’estate dovesse partire. Detto questo, rispetto tutte le opinioni: in fondo c’era chi, all’epoca, non apprezzava Mihajlovic. Per dire.

Sampdoria – Cagliari 4-1: la partita in 10 foto

Diario di bordo 26/04/18 – Misteri. In qualunque campo l’uomo volga lo sguardo, s’imbatterà sempre in enigmi per i quali non esistono risposte. Tutt’al più sospetti, supposizioni dettate da un particolare punto di vista, che però non trovano mai il sostegno di una prova che sia una. Anche il calcio, naturalmente, non si sottrae a questa massima. Ora, vuoi per la mia natura curiosa, vuoi per la mia sensibilità alle anomalie, mi è capitato di notare una strana situazione che si è venuta a creare sull’asse Genova-Roma e che Lazio-Sampdoria di domenica scorsa ha puntualmente confermato. Da qualche tempo, infatti, tra le compagini capitoline e genovesi assistiamo a sfide incrociate dagli esiti perlopiù scontati, secondo uno schema che sembra voler mantenere un certo equilibrio. Cerco di spiegarmi meglio con una tabella che tiene conto degli esiti delle gare delle ultime sei stagioni (ovvero, dal nostro ritorno in serie A ad oggi).

Sampdoria-Lazio:  Vittorie Samp 1 – Pareggi 2 – Vittorie Lazio 9

Sampdoria-Roma: Vittorie Samp 5 – Pareggi 3 – Vittorie Roma 4

Genoa-Lazio: Vittorie Genoa 7 – Pareggi 2 – Vittorie Lazio 3

Genoa-Roma: Vittorie Genoa 2 – Pareggi 1 – Vittorie Lazio 9

Guardando i numeri, si ha l’impressione che la Samp sia stata eletta a bestia nera per la Roma e a sparring partner per la Lazio. Esattamente l’opposto dei cugini anglo-genovesi-latinizzanti, che vanno sempre in bianco coi giallorossi e passeggiano sui biancocelesti. Tenuto conto dei valori delle due realtà (le romane in questi sei anni hanno sempre lottato per un posto Champions e addirittura la Roma per lo scudetto) fa un certo effetto, soprattutto, la specularità del fenomeno. Oddio, forse è soltanto un mio delirio personale, e non voglio certo tirare in ballo teorie complottiste, scie chimiche, ufologia o altre panzane. Però a me questa cosa fa un certo effetto. Ad ogni buon conto, registrate quanto scritto come una di quelle stranezze che ogni tanto il calcio ci regala e un modo contorto per non affrontare di petto l’ennesima cocente delusione al ritorno da una trasferta.

Lazio – Sampdoria 4-0: la partita in 10 foto

Diario di bordo 12/04/18 – Tra i vari epiteti coi quali ci si vuole schernire, ce n’è uno in particolare che ho sempre trovato inoffensivo: ciclisti. Solo un’ignoranza di grosso calibro può dare a questo termine un valore dispregiativo. Il ciclismo, nella sua forma pura e primordiale, quindi lontano dalla contraffazione dopata degli ultimi decenni, incarna l’essenza dello sport. La fortuna è ridotta a zero, mentre fatica e sacrificio sono portati ai limiti estremi, così che le vittorie hanno tutte, o quasi, un istantaneo sapore epico. E in quanto a entusiasmo e carica agonistica poi, non ha nulla da invidiare al calcio: un arrivo in volata possiede lo stesso pathos di un gol al 90’.Ma qui non si vuole mettere in contrapposizione i due sport. Al contrario, se ne vuole sottolineare l’analogia. Avete notato, per esempio, come la corsa per l’Europa League abbia preso sempre più le sembianze di un tappone dolomitico o una grande classica del nord?
Da una settimana all’altra si alternano tentativi di fuga a recuperi formidabili, allunghi che fanno selezione a cadute e forature che rimettono tutto in gioco.Ora come ora la favorita sembra essere l’Atalanta: ha più gamba, più “birra in corpo”. La Fiorentina, invece, potrebbe pagare la lunga e portentosa rincorsa. Il Torino, dal canto suo, sembra staccato irrimediabilmente, tuttavia lo scontro diretto del prossimo turno potrebbe riportarlo in corsa. E noi? Noi siamo sempre lì, fuggitivi della prima ora, evidentemente stanchi, stremati, con la borraccia vuota, ma senza alcuna intenzione di cedere un metro (vedi Bologna). Difficile dire come andrà a finire. Quello che chiedo, da tifoso, ai nostri “ciclisti”, è di stringere i denti e provare a giocarci tutte le chance fino allo sprint finale. Da non avere rimpianti. Che poi il tappone dolomitico e le grandi classiche del nord non è che le vincono sempre i favoriti…
Diario di bordo 11/04/18 – Da bambino, come tanti, trascorrevo gran parte dei pomeriggi in piazzetta a correre dietro a un pallone. Quando non eravamo in un buon numero da poter tirare su una partita vera e propria, o il campetto era già occupato, o non avevamo voglia di fare “un’americana” o “un’olandese”, giocavamo a “muretto”.
Il gioco consisteva nel calciare a turno di prima intenzione e far rimbalzare la palla, appunto, contro un muro di piccole dimensioni o una parte ben delimitata di uno più grande (doveva corrispondere grossomodo a una porta da calcio). Chi non centrava il muretto veniva eliminato, finché non rimaneva un solo vincitore. Era una specie di squash. Crescendo e iniziando a frequentare una scuola-calcio, il “muretto” non scomparve ma si trasformò in una pratica di allenamento per i calciatori più scarsi o colpevoli di qualche comportamento poco ortodosso. In pratica, il malcapitato stava per minuti e minuti (che parevano ore!) a calciare contro il muro che delimitava il campo e ripetere all’infinito i fondamentali: passaggio di piatto, collo, esterno, destro e sinistro, stop di petto, coscia, interno, esterno, destro e sinistro, e così via. Il tutto mentre i compagni erano impegnati nella partitella o a calciare in porta o a provare qualche schema. Ma in serie A giocare contro un “muretto” vuol dire affrontare una squadra improntata al catenaccio più estremo. Una squadra che rinuncia a giocare, determinata a portare a casa lo 0 a 0, schierando 11-difensori-11.
Se questo accade in un derby, le polemiche e i menaggi dei giorni successivi sono inevitabili. Ma la cosa più interessante è l’implicita ammissione d’inferiorità che si può trarre da un atteggiamento del genere. I “cugini”, in buona sostanza, rinunciando a giocare e provare a vincere la partita, hanno riconosciuto la nostra supremazia. Certo, sarebbe stato meglio per noi e la nostra classifica portare a casa i 3 punti, magari anche in maniera rocambolesca o con un furto memorabile. Ma non si può avere tutto. Saranno contenti quelli di noi che indicano come unico obiettivo stagionale il dominio cittadino. Per tutti gli altri è un derby che si dimenticherà in fretta. Tra i più brutti e noiosi della storia, come altri 0-0 finiti nell’oblio.
Diario di bordo 05/04/18 – “Sampdoria è come bella ragazza a cui tutti vogliono dare baci”. Non ricordo il contesto in cui Boskov pronunciò quest’epica frase e dunque non proverò a interpretarla, benché il riferimento alla gloriosa Sampdoria che guidò dal 1986 al 1992 non può non farmi tornare alla mente quanto bella fosse quella squadra e quanto noi tifosi ne fossimo follemente innamorati.
Tempi indimenticabili, tempi irripetibili. Resta, in ogni caso, un senso emblematico in quell’affermazione, che scavalca le epoche e aderisce all’immaginario collettivo della Sampdoria: la metafora della ragazza. Vuoi per la giovane età del club, vuoi per il carattere in qualche modo femmineo della squadra. E non mi riferisco certo alla fragilità, ché oramai solo i più stolti associano questo attributo alle donne. Mi riferisco invece alla volubilità, croce e delizia di quell’universo femminile che disorienta e irrita noi maschietti, nella stessa misura in cui ci attrae e conquista.
Quanto è appena accaduto sull’asse Verona-Bergamo nel breve volgere di tre giorni vale più di ogni altro esempio. Primo tempo a tutta birra e secondo moscio contro il Chievo, 45 minuti iniziali al piccolo trotto e ripresa spavalda contro l’Atalanta; sciuponi coi clivensi, cinici con gli orobici; bottino di 0 punti contro la compagine che si batte per la salvezza, 3 contro la diretta concorrente all’Europa League. E noi lì, sempre più confusi, sempre più innamorati della nostra “ragazza”. Un attimo prima schiumiamo rabbia, la insultiamo, le rinfacciamo torti e colpe, pronti quasi a scaricarla. Poi, un attimo dopo, la guardiamo estasiati, le rinnoviamo promesse d’amore e la riempiamo di baci, pronti a tutto per lei. Perché l’amore fa questo, l’amore travolge e sconvolge, regala e sottrae, innalza e sotterra. E pensare che la primavera è appena cominciata. E pensare che c’è un derby alle porte…
Diario di bordo 23/03/18 – Le “idi di marzo” erano, nell’antico calendario romano, i giorni centrali del mese e sono diventate famose perché fu proprio il 15 marzo del 44 a.c. che venne ucciso Giulio Cesare, a seguito di una congiura ad opera di alcuni membri del Senato. Da sempre vengono date due diverse interpretazioni all’evento. Una sostiene che i senatori, con quel gesto, difesero la Repubblica dalle mire tiranniche di Cesare e l’altra lo valuta come la volontà di conservare ad ogni costo lo status-quo.
È in quest’ottica che possiamo associare le “idi di marzo” alla Sampdoria. Da quando siamo tornati in serie A, infatti, ogni anno a marzo comincia il nostro declino e le ultime dieci giornate si trasformano in una lenta agonia. Come se si volesse “uccidere” qualsiasi sogno di gloria e mantenere lo status-quo, sospesi nel limbo, appena sopra la zona-retrocessione. I numeri, del resto, sono impietosi:

Nella stagione 2012/13, alla 28a giornata eravamo al 10° posto, poi inanellammo 1 vittoria, 4 pareggi e 5 sconfitte, che ci fecero scivolare al 14° posto.

Nel 2013/14 passammo dal 9° posto al 12° dopo 3 vittorie, 2 pari e 5 sconfitte.

Nel 2014/15 dal 4° al 7° posto con 1 vittoria, 5 pari e 4 sconfitte (l’accesso all’Europa League avvenne solo dopo il ripescaggio).

Nel 2015/16 dal 13° al 15° con 3 vittorie, 2 pari e 5 sconfitte.

Nella stagione 2016/17, dal 9° al 10° posto dopo 1 vittoria, 4 pari e 5 sconfitte.

Liquidare la faccenda con un’alzata di spalle o parlando di coincidenze è già parte del problema. Il nocciolo, invece, è capire se si tratta di una specie di malattia che sfugge al nostro controllo o se si tratta di una scelta societaria. In quest’ultimo caso non c’è niente da fare: solo mettersi in pace col cuore e aspettare un nuovo Paolo Mantovani. Viceversa, dobbiamo trovare una cura e guarire. O almeno provare a farlo.Tutto ciò non vuole sminuire quanto di bello ha fatto la squadra fino all’altro ieri (il 6° posto conservato per mesi, la salvezza conquistata con larghissimo anticipo, le vittorie con le corazzate, eccetera). Anzi, è proprio perché questa squadra, questi giocatori e questo allenatore ci hanno sorpresi ed entusiasmati che sarebbe un delitto se a fine stagione dovessimo venire risucchiati nelle zone anonime di classifica. Quest’annata merita di entrare nella storia blucerchiata e non finire tra le pagine incolori.

Sampdoria – Inter 0-5: la partita in 10 foto

Diario di bordo 15/03/18 – Il sospetto è un animale che entra in casa di soppiatto, un insetto che s’insinua tra i vestiti. Ne avverti la presenza, sai che c’è. Ma se lo cerchi non lo trovi. Allora pensi di aver avuto un’allucinazione, un abbaglio e, quando già te ne stai convincendo, di nuovo qualcosa ne rivela la presenza. E ricominci daccapo.Il sospetto è una sorta di reazione chimica che si genera quando la paura impatta in un atteggiamento incomprensibile, un agire che non segue il normale filo logico ma devia in direzione sconosciuta, o addirittura contraria. E allora subentra il ricordo, il ricordo del tradimento. Perché il sospetto è sempre legato alla paura del tradimento di un vincolo di lealtà, generalmente di natura affettiva, contratto in tenera età.
Al termine di Crotone-Sampdoria, più che la delusione per la sconfitta, in molti tifosi si è fatto strada un terribile sospetto: quello di aver perso apposta per defilarci dalla corsa all’Europa League o, peggio ancora, di esserci venduti la partita. In effetti, non esistono motivi razionali per spiegare una prestazione così umiliante, che oltretutto segue altre trasferte imbarazzanti, sia nel punteggio che nelle modalità, per le quali son già stati spesi tutti gli alibi di circostanza. Alla 26a giornata, la differenza che passa tra i punti che abbiamo racimolato in casa e quelli fuori è la stessa che passa tra il Napoli e il Cagliari. Come i partenopei, infatti, vantiamo 10 vittorie, 2 pari e 2 sconfitte tra le mura amiche, e come i sardi vantiamo 3 vittorie, 3 pari e 7 sconfitte in trasferta. Da una parte marciamo a una media-scudetto, dall’altra a una media-retrocessione (!).È inevitabile allora che i tifosi nutrano dei sospetti. È inevitabile anche perché le vicende di Moggiopoli e il Calcio-scommesse sono ancora troppo fresche, troppo attuali. Sono quel ricordo di alto tradimento che ancora incombe sul calcio italiano.
I più avevano liquidato quel periodo come una “pagina nera” che ha ricoperto di fango il nostro sistema calcistico e falsato un certo numero di campionati. E invece il danno peggiore l’hanno fatto alle generazioni successive di tifosi, quelle di oggi e di domani, che non avranno mai la certezza della genuinità dello spettacolo a cui assistono. La gioia per la vittoria è una gioia a metà, adombrata dal dubbio, mentre la rabbia per la sconfitta è doppia, perché magari organizzata a tavolino. La “pagina nera” del calcio italiano è questa, col sospetto che ti ronza continuamente in testa.
Diario di bordo 02/03/18 – Nel novembre del 1989, quando la parabola della canzone d’autore italiana era già in fase discendente, Luca Carboni pubblicava il suo quarto album: “Persone silenziose”. Secondo alcuni, il suo miglior disco. Tra i brani spicca il singolo omonimo che, come si può intuire, è una sorta di tributo alle figure secondarie, taciturne, quasi invisibili. Quelle figure relegate al ruolo di comparsa, come le ballerine di ultima fila, ma non per demeriti propri, bensì per indole o addirittura per scelta.
Nella rosa dell’attuale Sampdoria, c’è un elemento che si distingue per queste caratteristiche e risponde al nome di Matias Silvestre. Schivo e scarno di parole, tanto in campo quanto fuori, il trentatreenne difensore argentino ha già collezionato in blucerchiato 124 presenze in 4 stagioni. Certo, non è un campione di stazza mondiale come Vierchowood o Briegel, tanto per rimanere nel suo ruolo, né potrà mai diventare un capitano di lungo corso come lo sono stati Ferroni, Pellegrini, Mannini e Gastaldello. E dunque, difficilmente il suo nome apparirà nell’ideale “Hall of fame” sampdoriana che consegneremo alle generazioni future. Ma chi, come noi, lo sta apprezzando domenica dopo domenica, non può non incoronarlo come campione di linearità, unica vera certezza della retroguardia attuale, al netto dei suoi difetti (pochi) e pregi (tanti).
Contro l’Udinese sembrava arrivato il giorno giusto per la sua consacrazione. Il primo e agognato gol in maglia blucerchiata, il gol col quale ha sbloccato una partita complicata e fondamentale per il nostro cammino, un gol determinante che l’avrebbe ripagato di tutto il lavoro oscuro esercitato nelle retrovie. Ma poi, al ’83, ecco la straordinaria (e involontaria) prodezza di Zapata e, come se non bastasse, la sua goffa autorete nei minuti di recupero. E così le luci della ribalta in un istante si sono spostate sul colombiano e il buon Silvestre, con la sua rete, è ritornato nell’ombra. Com’è destino, in fondo, per tutte le persone silenziose.

Diario di bordo 22/02/18 – Nel mondo artistico a tutto tondo, i più grandi, quelli cioè che sanno affermarsi nello spazio e nel tempo, sovrastando mode ed exploit generazionali, hanno una cosa in comune tra loro: l’imprevedibilità. Chi invece tende ad essere poco originale e ripetitivo nelle proprie forme espressive ben difficilmente riuscirà a scalare le hit-parade, a vendere ai botteghini o comunque ad attirare a lungo su di sé l’attenzione di critica e pubblico. Nella migliore delle ipotesi, questi saranno solo delle meteore. Anche nel mondo dello sport, e del calcio in particolare, vige una regola non dissimile da questa. Le squadre che propongono un gioco prevedibile, infatti, per quanto bello esteticamente, alla lunga diventano vulnerabili. E soprattutto in Italia, la patria del tatticismo, questo difetto lo si paga.

La sconfitta nello scontro diretto col Milan, più che per il punteggio e le conseguenze in classifica, deve farci meditare su questo aspetto: siamo forse diventati troppo prevedibili? Alla squadra di Gattuso è bastato bloccare la nostra fonte di gioco, l’asse Torreira-Ramirez, e attaccarci laddove siamo più fragili, sulle fasce, con rapidi cambi di gioco e uno-contro-uno in velocità, per fare sua la partita in relativa scioltezza. Del resto, in questa fase della stagione le squadre hanno completato il loro percorso evolutivo, mentre gli avversari ne hanno ormai appreso in toto pregi e difetti. Quindi, se non si hanno i propri effettivi in forma e una panchina lunga, o comunque non si vuole essere troppo “leggibili”, conviene trovare qualche variante. Ma la domanda sorge spontanea: ha Giampaolo una rosa in grado di garantirgli delle variabili tattiche? Posto che lui voglia adottarle, naturalmente. Oppure il problema non è questo, ma risiede unicamente nella brillantezza dei nostri ragazzi, oggi in fase intermittente. Nella lunga corsa all’Europa, ad ogni modo, è importante porsi in maniera critica, determinata e ambiziosa con sé stessi. I grandi artisti fanno così ed è così che tirano fuori i loro capolavori. Perché, non dimentichiamolo: andare in Europa League, per noi, sarebbe un autentico capolavoro.

Milan – Sampdoria 1-0: la partita in 10 foto

Diario di bordo 14/02/18 – La gente di mare lo sa, o dovrebbe saperlo: nessun vento tiene in eterno. Che sia una tramontana gelida che spiana il mare come una tavola o un maestrale che soffia a raffiche improvvise, che sia uno scirocco caldo che porta nuvole e pioggia o un libeccio che forma il mare con implacabili cavalloni; che sia di poppa e ci tenga costantemente in rotta o di prua e ci costringa a virate continue, in ogni caso, prima o dopo cadrà. E potranno passare pochi istanti come interminabili giorni ma, alla fine, sempre, tornerà a spirare da un’altra direzione e anche il più stupido dell’equipaggio esclamerà: “il vento è cambiato”.

La gente di calcio sa, o dovrebbe sapere, che la carriera di un calciatore è fatta di momenti. Periodi positivi dove riesce tutto, anche le cose più impensabili, e periodi negativi in cui gli errori sono la costante e anche le giocate più elementari si trasformano in un’impresa insormontabile. Sono passati cinque mesi, era esattamente un girone fa quando salutavamo l’acquisto in corsa di Zapata, lo vedevamo esordire e segnare dopo un pugno di secondi all’Olimpico di Torino. E poi la consacrazione col Milan, una settimana più tardi, al termine di una prova di rara determinazione e prepotenza fisica. Per queste sue doti, i più entusiasti di noi avevano rievocato addirittura Gullit, i più cauti il “gigante buono” Okaka. Tutti, ad ogni modo, eravamo convinti di aver trovato la pedina mancante a una squadra che aveva le carte in regola per farci tornare ad entusiasmare.

Ma, così com’è successo a Okaka e persino a Ruud Gullit, la parabola ascendente del colombiano a un certo punto si è arrestata, fino a calare repentinamente nelle ultime giornate. Con l’Hellas, vederlo sbagliare gol facili facili come il peggiore attaccante di terza categoria, ci ha fatto male. E ci fa male vederlo meno reattivo, meno prorompente e soprattutto triste. Ma non tema il buon Duvan, noi gente di mare sappiamo che il vento può cambiare da un istante all’altro: bisogna solo avere pazienza. E comunque, finché la Sampdoria riesce a vincere anche senza i suoi gol…

Sampdoria – Verona 2-0: la partita in 10 foto

Diario di bordo 7/02/18 – Ci sono dinamiche che accomunano tutti gli esseri umani, di tutte le categorie, dall’uomo d’affari alla casalinga. Capita, per esempio, che un giorno l’uomo d’affari abbia l’agenda fitta di appuntamenti e la massaia abbia un numero infinito di cose da sbrigare. Entrambi stilano un programma preciso per arrivare in fondo alla giornata e portare a compimento ciascuno dei propri impegni. Capita però che le cose non vadano nel modo sperato e, quasi senza accorgersene, prima un inconveniente, poi un altro e un altro ancora scombinino la tabella di marcia. È una giornata no.

A questo punto, l’uomo d’affari più abile, così come la casalinga più avveduta, capisce che non può rincorrere a perdifiato tutti i suoi propositi iniziali, ostinandosi e illudendosi di realizzarli ugualmente. Deve operare una scelta e affrontare solo quelle faccende che non può rimandare o quegli appuntamenti che non può in alcun modo annullare. “Salvare il salvabile” diventa l’imperativo. Non si può dire che Sampdoria-Torino fosse iniziata male per noi. Anzi, la rete messa a segno da Torreira sembrava il preambolo a una nuova serata da incorniciare. Ma il semplice fatto che, dopo neppure un quarto d’ora, i granata avessero riagguantato il pari grazie a un rocambolesco autogol, lasciava intendere che la vittoria non sarebbe stata proprio così a portata di mano. E col passare dei minuti, vuoi per l’inconsistenza della coppia Quagliarella-Zapata, vuoi per il costante spauracchio rappresentato dagli affondi di Iago Falque e Niang, era sempre più evidente che, se mai qualcuno poteva portare a casa l’intera posta in palio, non sarebbe stata la Sampdoria.

Merito della sagacia tattica di Mazzarri o colpa del calo psicofisico dei nostri ragazzi dopo l’estenuante doppia sfida con la Roma? Ambedue, probabilmente. Tant’è vero che, quando i granata sono rimasti in dieci, sono stati comunque loro ad andare più vicini al vantaggio. Salutiamo dunque questo pareggio come un punto guadagnato. Perché, come sanno bene gli uomini d’affari più abili e le massaie più avvedute, quando ci s’imbatte in una giornata no è inutile affannarsi per correggere la sorte. Meglio “salvare il salvabile”. Del resto, gli obiettivi nel calcio si raggiungono anche attraverso dei pareggi.

Sampdoria – Torino 1-1: la partita in 10 foto

Diario di bordo 01/02/18 – Come il raggio di sole che trova un varco nel muro di nubi e all’improvviso illumina là dove erano soltanto ombre. Come l’istante fulmineo in cui ci appare finalmente chiaro e preciso il motivo per cui una persona ci piace tanto, un paesaggio in particolare ci emoziona, una canzone, un quadro, un libro tra milioni ci smuove qualcosa dal profondo del nostro io.

Così le due sfide ravvicinate tra Sampdoria e Roma hanno saputo rivelare la bellezza del calcio e il perché ci si appassioni a questo sport. A cominciare dalla qualità di gioco delle due squadre: pimpante, veloce, propositivo, con la palla a terra e incentrato più sulle doti corali che individuali. E poi la dinamica dei due incontri, col risultato costantemente in bilico, fino all’ultimo respiro, in un avvincente gioco di ribaltamenti di fronte: istante per istante al Ferraris, per frazioni più lunghe all’Olimpico. Ma soprattutto l’irrazionalità di questo sport. Che concede ai giallorossi la possibilità (non sfruttata) di passare in vantaggio su calcio di rigore a fine primo tempo, al culmine di un netto predominio blucerchiato, e che, a parti invertite, ci regala la vittoria al 90’, quando l’assedio della Roma sembrava dover giungere al suo naturale epilogo.

Nessun altro sport di squadra riesce a reggere il confronto. Il fattore fisico è in grado di determinare già in partenza l’esito della maggior parte delle sfide di rugby e football americano. Il gran numero di segnature concentra le emozioni di pallavolo e pallacanestro, quando va bene, nei soli istanti finali. Pallanuoto, hockey e pallamano sono in fondo dei derivati del calcio, che per una ragione o per l’altra riescono raramente a riprodurne i lampi d’imprevedibilità, ciò che d’irrazionale avvince il tifoso come una droga e lo rende insensibile a Calciopoli, Calcioscommesse e scandali d’ogni sorta. Dice: “sei di parte a scrivere cosi. A dire che il calcio è le sport più avvincente e Sampdoria-Roma il simbolo della bellezza del calcio”. E certo! È logico! Quale tifoso non è di parte? Quale amante del calcio non lo considera il gioco più bello del mondo? E poi, quando la Sampdoria gioca così, quando mi emoziona, mi sento libero di dire e scrivere quello che mi pare!

Roma – Sampdoria 0-1: la partita in 10 foto

Diario di bordo 24/01/18 – Prendi Genova, per esempio. La maggior parte dei turisti che prenotano un soggiorno nella Superba vengono essenzialmente per visitare l’Acquario. Guide e siti di viaggi riportano tutti come principale attrazione il complesso di vasche ittiche del Porto Antico. E le autorità cittadine, quando devono snocciolare dati sull’annata turistica, partono quasi sempre dal numero di presenze registrate all’Acquario. Ma anche il turista più distratto o impreparato, facendo il piccolo sforzo di muovere i propri piedi appena oltre l’ombra della Sopraelevata, non può non imbattersi nelle altre meraviglie della città. Dai palazzi di via Garibaldi alla cattedrale di San Lorenzo, dal Palazzo Ducale (con le sue mostre) alle antiche chiese disseminate per il Centro Storico, fino ai percorsi più arditi fuori dalle mura come la passeggiata Anita Garibaldi, il cimitero monumentale di Staglieno o il giro dei Forti, è tutto un fiorire di gemme che incantano il viandante.

Ora prendi Sampdoria-Fiorentina di domenica. Già dalla sera stessa, tutte le testate giornalistiche e i siti calcistici, locali e nazionali, hanno fatto a gara nel celebrare la tripletta di quel magnifico “vecchietto” che porta il nome di Fabio Quagliarella. Un’ovazione unanime strameritata, che a tratti ha preso le sembianze di un premio alla carriera, come vengono tributati solo sui red carpet del Festival di Cannes o di Venezia.Eppure, anche il tifoso blucerchiato più distratto non può non essersi accorto delle altre perle che hanno brillato sul prato spelacchiato di Marassi.

A cominciare dai tre-assist-tre di Gaston Ramirez, uno più bello dell’altro, con quella facilità ed eleganza di tocco che non ammiravamo dai tempi di Cassano. E poi la destrezza di Praet nel pressare gli avversari, indurli all’errore, rubargli palla e verticalizzare in tempo zero. Per non parlare della crescita costante di Bereszynski, finalmente terzino bifase, capace di prodigiosi recuperi e proiezioni offensive in sostegno ai compagni, o quella di Kownacki che, al netto dell’orrore sottoporta, oramai si muove da attaccante smaliziato. All’ombra dell’highlander Quagliarella, dunque, stanno germogliando giorno dopo giorno le promesse di domani. Proprio come all’ombra dell’Acquario si dipanano le antiche bellezze di Genova. Ed è una delizia per gli occhi.

Sampdoria – Fiorentina 3-1: la partita in 10 foto

Diario di bordo 10/01/18 – Longobarda, Oronzo Canà, Aristoteles, Crisantemi, Speroni, Giginho. Scommetto che vi è spuntato un sorriso a fior di labbra e mentalmente state visualizzando una delle vostre scene preferite de L’allenatore nel pallone. Non è così? Credo siano pochissimi, d’altra parte, gli appassionati di calcio che non abbiano visto almeno una volta il film-cult con Lino Banfi. Una divertente commedia del 1984, che prende in giro il mondo del pallone attraverso un ben calibrato mix di situazioni surreali e verosimili.

Le improbabili trattative di calciomercato, col culmine dell’operazione di appendicite per contattare il “chirurgo” Socrates, le esasperazioni tattiche della bi-zona e il 5-5-5, il match nella nebbia contro la Juventus, fanno tutte parte del primo aspetto. Mentre del secondo come non citare la saudade di Aristoteles, il rapporto altalenante tra Canà e la tifoseria o le dinamiche del ritiro? Ma c’è anche un altro elemento molto aderente alla realtà, che di certo non deve essere sfuggito ai tifosi blucerchiati più attenti. Quando, a metà campionato, la Longobarda prende a risalire clamorosamente la classifica, dopo un inizio rovinoso, la rimonta parte proprio da una vittoria sulla Sampdoria. (La sequenza si apre con Crisantemi, seduto in panchina affianco a Canà, che dice: “La Samp la vedo molto male oggi”). Ricordate?

Mi rendo conto che paragonare il Benevento alla Longobarda non sia tanto originale, né elencare le occasioni in cui la nostra amata è andata a far figure meschine sui campi di compagini ampiamente inferiori, male in arnese o addirittura già condannate alla retrocessione. Eppure non posso nascondere lo stupore per aver dovuto ancora una volta assistere all’ennesima onta. Come se non riuscissimo mai a liberarci da questa sindrome di Robin Hood, che ci vuole capaci di andare a saccheggiare i ricchi per poi distribuire cotanto bendiddio ai poveri.

E dire che quest’anno sembravano esserci tutti i requisiti per un copione diverso: l’acquisizione di un’identità precisa, una maggiore determinazione generale, sincronismi collaudati. Invece niente, dopo i segnali di avvertimento con Udinese e Bologna, ecco di nuovo la Sampdoria in formato Babbo Natale, che va a regalare un giorno di tripudio alla matricola che fa incetta di record negativi in serie A. Il fatto che siamo in una fase di flessione atletica non può bastare come giustificazione. E neppure quanto sostenuto da mister Giampaolo, ossia che non sappiamo reggere il peso della pressione nella corsa all’Europa. Chissà, forse “noi eravamo freddi e loro erano caldi e inchezzeti”, come avrebbe detto Canà.

Benevento – Sampdoria 3-2: la partita in 10 foto

Diario di bordo 05/01/18 – L’acquisizione delle impronte digitali quale prova di reato ha all’incirca un secolo di vita ma, come tutte le scoperte epocali, ha dovuto subire un lungo ostruzionismo prima di imporsi come fattore inoppugnabile. È facile immaginare, infatti, come lo scetticismo del mondo esterno all’ambito scientifico e le resistenze della magistratura più tradizionalista abbiano messo in discussione la presunta individualità e immutabilità delle tracce lasciate dai polpastrelli. Dubbi che, tuttavia, sono stati fugati non appena il volume delle prove a favore di questa nuova tecnica è divenuto tale da rendere infondata qualunque opposizione.

La stessa situazione si sta verificando oggi con l’introduzione del VAR (Video Assistant Referee). Una novità che sta soltanto nella sua istituzionalizzazione, perché già dal maggio del ‘69, quando andò in onda la prima Moviola della Domenica Sportiva, è palese il contributo fornito alla verità dei fatti dalla visione a rallentatore delle azioni controverse. Le discussioni sul VAR, quindi, hanno una ragione d’essere solo per ciò che concerne tempi e modi di consultazione, senz’altro migliorabili. Del resto, che non possa essere uno strumento in grado di estirpare le ingiustizie al 100% ne abbiamo avuto una dimostrazione proprio in occasione di Sampdoria-Spal.

Diciamocelo fuori dai denti: abbiamo vinto con un rigore che non c’era. O almeno, molto generoso. Che Viviani si sia mosso in maniera scomposta in area e abbia toccato (ma proprio toccato) Ramirez è vero, tanto quanto è vero che l’uruguaiano si è lasciato cadere. L’onestà sportiva, così come ci ha fatto infuriare lo scorso anno in occasione del rigore fischiato alla Roma al 90’ per il 3-2 finale, oggi deve farci ammettere di aver vinto questa partita in modo “sporco”. Se poi vogliamo parlare di una senso più ampio di giustizia, che vuole che la Spal sia stata ripagata con la stessa moneta dopo aver condotto il match in maniera “sporca” (falli tattici, provocazioni e perdite di tempo a tamburo battente), è un altro discorso.

Il VAR, in buona sostanza, è uno strumento indispensabile nel calcio moderno per renderlo più giusto e leale, ma non dobbiamo pretenderne l’infallibilità. Anche perché la perfezione nel mondo umano raramente esiste. Un recente studio condotto da esperti di scienze forensi, ad esempio, ha affermato che non è possibile associare un’impronta digitale a un unico individuo con la sicurezza del 100%. Tutto è sempre in discussione, dunque. Ma lo sapevamo già.

Sampdoria – SPAL: la partita in 10 foto

Diario di bordo 28/12/17 – È più virtuoso essere coerenti col proprio pensiero o essere in grado di rielaborarlo quando le condizioni mutano? Il dilemma è tanto antico quanto ozioso, poiché anche la saggezza più elementare suggerisce di abbracciare la coerenza fintanto che non trasfiguri in ottusa testardaggine e di rivedere le proprie posizioni solo al riparo da ogni sospetto di opportunismo. Ma nel calcio questo equilibrio non regge. Un po’ perché testardaggine e opportunismo non sempre sono dei difetti, ma anzi più spesso sono dei pregi, e un po’ perché la loro trasposizione alla voce “filosofia di gioco” è il sale di questo sport.

Quante volte infatti l’applicazione del “calcio-totale olandese”, e i suoi surrogati, o quella del catenaccio all’italiana hanno irretito gli avversari e sovvertito i pronostici? Quante volte il dualismo tra queste due filosofie ha alimentato analisi, chiacchiere da bar, processi del lunedì e quant’altro? La sconfitta di Napoli ha aperto anche all’interno del mondo blucerchiato l’annoso dibattito. Se è vero che i tre gol subiti sono nati da errori più o meno grossolani in fase d’impostazione dalla difesa (!), è anche vero che abbiamo segnato due reti, su palla inattiva, frutto comunque di due azioni manovrate che hanno indotto i nostri avversari al fallo. Il dibattito non ha soluzione, anche perché prendere in esame una sola sconfitta per discutere sulla bontà di un sistema di gioco è ingiusto, almeno quanto farlo dopo una vittoria. E non esisterà mai alcuna controprova in grado di assicurarci che adottando l’altro sistema il risultato sarebbe stato opposto.

Dunque, per avere un senso, tutta la questione deve spostarsi su un piano superiore, come può essere l’analisi di una stagione intera o una sua porzione significativa. La fine del girone d’andata, per esempio. E allora, a prescindere dal risultato con la Spal, fermandoci ad osservare la classifica, possiamo già dire che siamo andati oltre alle aspettative iniziali, che gli elementi della rosa sono per la maggior parte migliorati qualitativamente e il gioco riceve consensi unanimi. La coerenza di giudizio, oggi, non può che sostenere la coerenza e la testardaggine di mister Giampaolo. Però il segnale dato dalle ultime prestazioni negative non dev’essere ignorato e, qualora perdurasse la parabola discendente, qualora tutta la bontà del lavoro svolto venisse spazzata via da un crollo verticale, solo allora sarà necessario rimettersi in discussione. Questa, in fondo, è saggezza elementare applicata al calcio.

Napoli – Sampdoria 3-2: la partita in 10 foto

Diario di bordo 21/12/17 – Uno dei problemi più diffusi e fastidiosi dei tempi moderni è rappresentato dalla scarsa durata delle batterie dei cellulari. Che si tratti del modello-base o di quello più evoluto, già dopo qualche mese è facile che non riesca a sopportare le 12 ore di autonomia. E così ci si può ritrovare di colpo impossibilitati a comunicare, a mandare messaggi con whatsapp, condividere su facebook, interagire con Instagram, Twitter, etc. Magari proprio sul più bello, quando sarebbe indispensabile.

E non serve a niente maledirsi per aver dissipato parte della carica per operazioni superflue, o addirittura inutili.Nessuno di noi si sognerebbe mai di rimproverare i ragazzi per non aver risparmiato qualche “tacca” nella prima parte di campionato. Le euforiche settimane trascorse dopo i successi su Fiorentina, Milan, Juventus e il derby ci hanno riproiettato indietro ai tempi gloriosi e tuttora ci permettono di soggiornare in una posizione di classifica di tutto rispetto. Certo, però, che vedere la nostra amata senza più energie, subire rimonte e perdere all’ultimo minutofa un certo effetto. Del resto, si poteva prevedere. Chi basa la propria filosofia di gioco su pressing e dinamismo a tutto campo, o ricorre al doping, o presto o tardi deve segnare il passo.

Adesso non ci resta che aver pazienza. E magari sperare che Santa Claus ci faccia trovare sotto l’albero uno di quei ricarica-batterie portatili, o uno di quelli più recenti a energia solare, o anche quello da auto, con l’adattatore per l’accendisigari.

Sampdoria – Sassuolo 0-1: la partita in 10 foto

Diario di bordo 12/12/17 – Negli anni ’90, per i calciofili e non solo, “Mai dire gol” è stata una trasmissione di culto. Oltre alla verve della Gialappa’s band e dei comici che li affiancavano, il successo del programma era garantito anche dalle varie rubriche settimanali, tra le quali spiccava “il gollonzo della settimana”. Come nelle comiche in bianco-e-nero, i filmati dei gol erano una sequela di gag esilaranti in cui si alternavano autoreti rocambolesche, “papere” clamorose dei portieri, rimbalzi e traiettorie bizzarre assunte dal pallone, reti segnate con le parti più impensabili del corpo umano e così via.

Il gol di Farias, o meglio, l’incredibile cappella di Viviano, avrebbe di certo vinto il premio come “gollonzo della settimana”. Qualcuno più perfido avrebbe potuto addirittura proporlo come “gollonzo dell’anno”. Ci sta. E ci sta anche il dileggio dei “cugini” al rientro dal weekend. Ma, proprio come le comiche in bianco-e-nero, un conto è vedere un tizio che scivola su una buccia di banana o cade dalle scale, un conto è scivolare noi stessi sulla buccia di banana o cadere dalle scale… Allora giù imprecazioni! Anche queste ci stanno. E ci sta pure la rabbia al pensiero dei due punti persi a causa (soprattutto) di quella “papera”.

Quello che però non ci sta per niente è il linciaggio social che ne è seguito. Come sempre Facebook e affini danno il peggio di sé in queste circostanze. Sulle pagine blucerchiate, anche ufficiali, il nostro estremo difensore è stato bersaglio da insulti rabbiosi, pesanti e gratuiti, ad opera di alcuni dei suoi stessi “tifosi”.Ecco, se c’è una cosa per la quale vanno tributati dei meriti, anche ben oltre l’aspetto puramente sportivo, a “Mai dire gol” è la capacità dissacrante che ha saputo portare nel mondo del calcio. La capacità di non prendersi troppo sul serio, di essere leggeri e di saper ridere di sé stessi. Suggerisco a quei “tifosi” di andarsi a rivedere qualche puntata.

Cagliari – Sampdoria 2-2: la partita in 10 foto

Diario di bordo 8/12/17 – Il termine “bestia nera” é stato coniato in epoca medievale per indicare il demonio, la cui orrida raffigurazione doveva spaventare le anime superstiziose di allora e fungere da deterrente alle varie tentazioni. Poi, col tempo, il suo significato è stato più volte modificato, tanto che oggi per “bestia nera” s’intende qualunque cosa costituisca uno spauracchio, un tormento o un’ossessione, qualcosa che incuta un timore irrazionale e nonsi riesca a dominare.

Nei nostri 61 anni di storia, la “bestia nera” è stata incarnata a turno ora dall’Inter, ora dalla Fiorentina, ora dalla Juventus, dall’Atalanta, eccetera eccetera. E negli ultimi tempi, complice quella bruciante sconfitta ai rigori nella finale di Coppa Italia del 2009, è la Lazio ad averne assunto prepotentemente il ruolo. A maggior ragione se pensiamo all’anno passato, quando tra andata e ritorno la squadra di Inzaghi ha dato una lezione di calcio a Giampaolo e i suoi ragazzi.

Ferito dal ricordo e desideroso di vendetta, stavolta il tecnico marchigiano sembrava aver trovato le giuste contromosse per imbrigliare la “bestia nera”. Ma la sorte, che fino a oggi ci aveva tendenzialmente arriso, si è ripresa con una serie di carambole quanto anticipatoci, rafforzando -ahinoi!- il ruolo di “guastafeste” dei biancocelesti. Manco a farlo apposta, il prossimo turno ci vede impegnati a Cagliari. Compagine che spesso ci ha regalato dolori e che pure mister Giampaolo deve ricordare con poca gioia, visti i suoi trascorsi traumatici alla corte di Cellino. Ci ritroveremo così a dover affrontare in una volta sola ben tre “bestie nere”, perchè alle due citate va aggiunto il tabù-trasferta. Sfatato l’incantesimo del Ferraris, è tempo di cambiare registro lontano da casa.

Sampdoria – Lazio 1-2: la partita in 10 foto

Diario di bordo 30/11/2017 – Il disturbo bipolare (o bipolarismo), spesso confuso col disturbo borderline di personalità o con i più generici disturbi dell’umore, è una psicopatologia invalidante da non sottovalutare. Si caratterizza per due fasi ben distinte: una fase depressiva e una fase ipomaniacale, che si alternano a intervalli perlopiù regolari, con una transizione che talvolta è brusca e improvvisa, altre più subdola e lenta. Durante la fase depressiva, chi ne è affetto presenta un umore molto basso, apatico, con sonno e appetito alterati, difficoltà di concentrazione, lacune mnemoniche e pensieri cupi che possono spingersi fino a desideri suicidi. Durante la fase ipomaniacale, invece, il soggetto sviluppa un forte senso di onnipotenza e un comportamento iperattivo per cui non sente la necessità di mangiare e/o dormire, riduce le capacità di valutazione e vive in un prolungato stato di esaltazione.

Cari amici sampdoriani: se negli ultimi tempi avete notato nel vostro vivere quotidiano uno o più sintomi simili a quelli sopraelencati, e per giunta vi è sembrato di passare con troppa frequenza e rapidità da una fase all’altra, non temete. Non avete contratto alcun disturbo bipolare. È semplicemente la naturale conseguenza del cammino della nostra amata, tanto invincibile e straripante nei match disputati entro le mura domestiche, quanto fragile in quelle giocate oltreappennino.

Quale terapia è consigliabile? Ma la solita! Un sostegno ancora maggiore a quei quattro splendidi colori! Affinché ciò che adesso appare un’esaltazione intermittente, equivoca e interpretabile dai nemici come indice d’instabilità mentale, diventi un’esaltazione sana, incessante e aderente alla realtà gloriosa che ci aspetta, non solo al Ferraris, ma in ogni stadio italiano.

Bologna – Sampdoria 3-0: la partita in 10 foto

Diario di bordo, 23/11/2017 – Il 25 giugno 1875, nei pressi del torrente Little Bighorn, nel Montana, andò in scena una storica battaglia tra il 7° Reggimento Cavalleria degli Stati Uniti d’America e i nativi americani, rappresentati dalle tribù dei Lakota-Sioux, Cheyenne e Arapaho. Lo scontro faceva parte delle cosiddette “guerre indiane”, che avevano come posta in gioco il possesso delle Black Hills: da sempre territorio di caccia e luogo mistico per i nativi americani, divenuto nel frattempo un irrinunciabile giacimento aurifero per gli uomini a stelle-e- strisce. La battaglia si risolse con una clamorosa e schiacciante vittoria degli indigeni, in cui perse la vita anche il Generale Custer.

42 anni più tardi, il 7 novembre 1917, con la Prima Guerra Mondiale in pieno svolgimento, a Pietrogrado venne portata a compimento un’insurrezione che prese ilnome di “rivoluzione d’ottobre”. Una folta schiera di operai, soldati e contadini russi, guidati dai bolscevichi di Lenin e Trockij, occupò il Palazzo d’Inverno e rovesciò il Governo provvisorio sorto in seguito alla deposizione dello zar e retto da una coalizione di forze conservatrici. In poche ore s’insediò il Congresso dei Soviet, che promulgò all’istante i decreti sulla terra e sulla pace. Il primo stabiliva la confisca dei terreni e la loro redistribuzione ai contadini, mentre il secondo si appellava a tutti i popoli in guerra per una pace immediata, senza annessioni né indennità. La Storia, tuttavia, ci insegna come i due eventi, per quanto rilevanti, simbolici e celebrati a decine e decine d’anni di distanza, anche lontano dai luoghi coinvolti, in realtà sono solo due parentesi, due momenti eccezionali fini a sé stessi, o quasi.

I nativi americani, infatti, sprofondarono ben presto nel loro inesorabile destino di sottomissione. Così come le masse proletarie russe tornarono dopo poco tempo a patire le oppressioni della disuguaglianza e a fare da “carne da macello” per nuove guerre imperialiste. Nessuno di noi nutre una qualche illusione. Al termine della partita con la Juve, al triplice fischio di quell’incredibile, strepitoso e pirotecnico 3 a 2, sapevamo tutti (come l’abbiamo sempre saputo) che lo scudetto 2017/18 non è affar nostro. Uccidere il re non ci trasforma automaticamente in re. Eppure anche noi, subito dopo il 3 a 0, mentre danzavamo sulle note del coro “Brazil-Brazil”, ci siamo ritrovati sospesi nell’ebbrezza che divampa quando si realizza l’impossibile. La gioia che avevamo dipinta sui volti e scorreva nelle nostre vene era purae assoluta. I nostri occhi brillavano come quelli del popolo russo sceso in piazza acelebrare ciò che sembrava l’inizio di un “mondo nuovo”. I nostri sorrisi erano raggianti come quelli dei pellerossa che si abbracciavano sul campo di battaglia, convinti di avere respinto le mire espansionistiche dei visi pallidi. Questa impresa ce la porteremo dietro a lungo. La racconteremo alle future generazioni blucerchiate. Perché, chi non è deputato per nascita alla gloria perpetua, non può che alimentare le proprie speranze di riscatto col ricordo delle imprese mietute, col ricordo diquei momenti eccezionali che rimangono nella storia.

Sampdoria – Juventus 3-2: la partita in 10 foto

Diario di bordo, 8/11/2017 – Una brillante battuta letta tempo fa recitava così: “non esistono atei su un aereo che sta precipitando“. Allo stesso modo, possiamo affermare che: “non esistono non-superstiziosi prima di un derby”. Ogni tifoso che si rispetti ha infatti i suoi piccoli o grandi riti nei momenti che precedono la stracittadina. Anche i più insospettabili, i più scientifici, hanno le loro debolezze scaramantiche. Dal minuscolo amuleto ficcato in tasca quasi distrattamente all’itinerario minuzioso per raggiungere lo stadio, dalla postazione da occupare in gradinata fino a tutto un cerimoniale che scandisce l’intera settimana di vigilia, le variabili sono innumerevoli e più che mai soggettive.

Ma cos’è la scaramanzia in fin dei conti? E che senso ha? Nessuno, a rigor di logica. Se non la mera illusione di attribuirci un qualche ruolo negli eventi, anche quando ne siamo semplici spettatori. Come se la fortuna potesse essere manipolata, attirata o scacciata a seconda dei gesti che compiamo e le facce che incrociamo. È un residuo medievale, tutto sommato, che diventa sempre più ridicolo al cospetto di quest’epoca in costante progressione tecnologica e scientifica. Il calcio stesso ne subisce continuamente l’influsso. E non solo per la Var.

Oggi vince chi possiede i componenti migliori forniti dalla società e il software più veloce ed efficace elaborato dal tecnico. Non c’è più spazio (o quasi) per il colpo di scena, per il fuori-programma. Ben prima del triplice fischio, del resto, la nostra vittoria nel derby aveva già assunto il sapore dell’inevitabile, tanto era evidente già in partenza la nostra superiorità. Una superiorità che nessun talismano, rito o gesto scaramantico avrebbe potuto ribaltare. La superstizione è morta. Perchè la superstizione appartiene al passato, appartiene al “popolo”, è il “club” più antico d’Italia.

Genoa – Sampdoria 0-2: la partita in 10 foto

Diario di bordo, 2/11/2017 – La barrique è una speciale botte in rovere di origine francese dalla capacità di 225 litri, 228 massimo. Queste sue ridotte dimensioni, unite alla lunga e particolare lavorazione delle doghe di cui è composta, la rendono straordinariamente adatta all’affinamento dei vini pregiati. Oltre a permettere una maggiore ossigenazione del vino, infatti, il legno col tempo rilascia un certo numero di aromi tipici (tra i quali spiccano le note di vaniglia, caffè e tabacco) che, al termine dell’invecchiamento, gli conferisce una maggiore struttura, una forte intensità cromatica e un gusto più morbido e rotondo. Impiegata originariamente nella produzione dei grandi vini di Borgogna e Bordeaux, la barrique si è presto diffusa in tutto il mondo.

E noi ne sappiamo qualcosa. Noi che da più di un anno conserviamo una barrique di uno strepitoso vino uruguaiano, un Torreira del ’96, assaporandolo ogni settimana, con tutta la sua complessità in continua evoluzione. Tanto che ormai ha catturato l’attenzione anche dei massimi esperti del settore.
Tuttavia, contemporaneamente all’entusiasmo, un sordo timore ha iniziato a serpeggiare in noi: quanto durerà? Per quanto tempo potremmo ancora gustarlo? Perchè se è vero che nella botte piccola c’è il vino buono, è altrettanto vero che ce n’è di meno, che va via facilmente e -ahinoi!- dura poco.

Diario di bordo, 23/10/2017 –Ti ricordi la prima volta che hai bevuto un bicchiere d’acqua? La prima volta che l’hai bevuto da solo, senza l’aiuto di nessuno? Cosa avevi: due anni? Tre anni? Ricordi la trasparenza di quel bicchiere? Il contatto delle tue mani incerte con quella superficie liscia, dannatamente scivolosa? E ti ricordi la paura che avevi di farlo cadere, di non essere in grado di sopportare quel peso? Mentre ti dibattevi tra il desiderio di mostrarti all’altezza e il terrore di sembrare ancora troppo piccolo? Te lo ricordi?

No che non lo ricordi, è naturale. Nessuno lo ricorda. Eppure adesso dici: “è facile come bere un bicchiere d’acqua!”. Adesso, lo dici. Perchè tutto diventa facile una volta che l’hai fatto, una volta che è compiuto, che è alle spalle.
Anche il 5-0 al Crotone è la cosa più semplice del mondo, adesso. Una pura formalità, dicono tutti, adesso. Ma è terribilmente scorretto e sciocco ragionare così, a giochi fatti. E allora onore al merito! Onore alla Sampdoria! A questa squadra che, piaccia o non piaccia, quest’anno è forte, come non lo era da diverso tempo, e saprà regalarci altre soddisfazioni. A meno che non si perda in un bicchiere d’acqua…

Diario di bordo, 19/10/2017 – Esiste una filmografia di stampo hollywoodiano che deve la sua fortuna a una trama semplice e ipercollaudata che si sviluppa secondo uno schema ben preciso: l’eroe va in difficoltà, poi gli eventi precipitano ulteriormente e, quando ormai non sembrano esserci più speranze, ecco che arriva la riscossa. I vecchi western con la scena-madre scandita dal grido “arrivano i nostri!” ne sono l’emblema più lampante.

I motivi per cui questo genere di pellicola riscuote i favori del grande pubblico sono evidenti. È facile e inevitabile riconoscersi nel protagonista. Il messaggio di fondo é tanto chiaro quanto consolante: riscattarsi è possibile in qualunque momento, anche quando tutto sembra perduto. E soprattutto la storia è verosimile, perchè queste dinamiche avvengono anche nella vita reale.
Sampdoria-Atalanta ne é l’esempio.
Chi di noi, del resto, non era già pronto a “cantare sconfitta” al termine dei primi 45 minuti di gioco? Chi non aveva collegato mentalmente quel primo tempo da incubo con la figura penosa di Udine e decretato di conseguenza la fine dell’incantesimo? Chi, nel brusio dell’intervallo, non aveva già spianato il suo indice accusatore su squadra e allenatore? Poi ecco giungere in lontananza gli squilli di una tromba, quindi la nuvola di polvere alzata dalla cavalleria lanciata alla carica e infine il fragore del contrattacco che rompe l’assedio e mette in fuga il nemico. Lieto fine; dissolvenza; titoli di coda.
Ma per chi, come me, non si accontenta di festeggiare la vittoria con John Wayne e dedica suo malgrado un pensiero ai compagni di John Wayne caduti in battaglia, una domanda resta sospesa nell’aria: ma dove cazzo eravamo nel primo tempo?!?

Diario di bordo, 4/10/2017 – Cosa pensare della ragazzina che prende 8 in un compito in classe e a quello successivo, una settimana più tardi, prende 4? Bisogna preoccuparsi? Arrabbiarsi? Bisogna considerare come episodio isolato l’8 o il 4? In certi casi mostrarsi troppo delusi e severi può essere controproducente, soprattutto se si tratta del primo vero passo falso. In fin dei conti, la media è un 6 spaccato. E anche le interrogazioni, finora, non sono mai scese sotto la sufficienza.

Ma il nocciolo della questione, in realtà, non sta nel 4 in sè stesso; il nocciolo della questione passa attraverso una domanda: cosa desideriamo per questa ragazzina? Desideriamo che strappi uno straccio di diploma anche col voto più basso? Desideriamo che si accontenti della sufficienza? Che negli studi, così come nella vita, si adagi sulle sue qualità di base e si limiti a “galleggiare”? Oppure desideriamo qualcosa di più? Magari che quelle qualità le sviluppi quanto più gli sia possibile per trarne soddisfazioni, aumentare la propria autostima e raggiungere dei risultati importanti?

La nostra adorata ragazzina del ’46 ha già dimostrato di poter lottare quest’anno per qualcosa in più della semplice salvezza. Le sfide con Fiorentina e Torino ci hanno fatto capire che possiamo competere con loro per il 7o posto e, perchè no, sognare addirittura il 6o, se una delle grandi steccasse. Ma per coltivare cotanto sogno è necessario partire da una profonda analisi critica del match di Udine, come fanno le squadre forti e ambiziose quando perdono male. Perchè, per assurdo, questo 4 può rivelarsi alla fine dei conti un risultato persino positivo se, da oggi in poi, suonerà come monito nella preparazione di ogni gara, se verrà preso da esempio per non commettere più quegli sciagurati errori di presunzione, leggerezza e appagamento che ci sono stati fatali. L’ambiente tutto, in poche parole, deve cambiare mentalità: deve pretendere e arrabbiarsi davanti a un risultato del genere. I 4, a scuola come nella vita, servono a questo.

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Diario di bordo, 24/09/2017 – Il turnover per l’allenatore è come il “cucchiaio” per il rigorista: se riesce sei un campione, se sbagli sei un coglione. È una legge ineluttabile del calcio. Si veda, a riguardo, il “cucchiaio” magistrale di Pirlo agli europei del 2012 e quello tragicomico di Pellè agli europei del 2016 (mimato più che calciato…). Ma se lo “scavetto” è un azzardo estemporaneo, spettacolare e gratuito, che punta sull’effetto sorpresa sia per spiazzare il portiere sia per deliziare la folla e gratificare la vanità del calciatore stesso, il turnover ha invece tutt’altro indirizzo. Il turnover è un azzardo meditato, pianificato, soprattutto quando si hanno partite ravvicinate, allo scopo di gestire le energie e mantenere l’equilibrio di squadra e, nel contempo, raccogliere il massimo risultato possibile.

La splendida vittoria col Milan, del resto, nasce in quel di Verona. Le forze risparmiate con l’Hellas nel turno infrasettimanale (che potevano tuttavia essere sufficienti per strappare 3 punti anche là, non fosse stato per quello sciagurato palo nel recupero…), si sono tradotte in superiorità agonistica contro la formazione rossonera. Ed è stata la pressione a farci vincere. La pressione incessante che abbiamo prodotto sulla loro retroguardia e sui loro centrocampisti fin dal primo minuto. La pressione che li ha costretti all’errore in entrambi i gol e ci ha permesso di non subire un solo tiro in porta. Pressione assicurata dal turno di riposo di Barreto e dal mezzo servizio di Strinic, Ramirez, Quagliarella e Zapata. Oltretutto, un turnover ben mirato permette, come in questo caso, di mantenere coinvolte nel gruppo anche le seconde linee, con benefici plurimi. Un nome su tutti: Alvarez. Dileggiato mercoledì sera e portato in trionfo quattro giorni più tardi.

Certo, per gli acerrimi detrattori del turnover e gli incontentabili di fede blucerchiata, i due punti lasciati a Verona sono comunque una macchia che impedisce di dare al turnover di Giampaolo il titolo di strategia esemplare. Ma siamo una squadra che sta maturando, che sta studiando per l’Europa, e non possiamo pretendere di essere già fatti e finiti. Dobbiamo procedere un passo alla volta. Anche il “cucchiaio” di Vialli contro il Borussia Dortmund non ci fece di per sé vincere la Coppa delle Coppe, però…

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Diario di bordo, 7/09/2017 – «Ci sono periodi in cui si vive senza legami stabili, “volando di fiore in fiore”, intrecciando flirt occasionali che hanno già sul nascere i giorni contati. Sia che debbano placare pruriti passeggeri o soddisfare le apparenze, questi rapporti si sviluppano sempre secondo il medesimo copione: iniziale entusiasmo, cui segue una vaga insofferenza e infine la rottura, che può essere tanto la conseguenza di uno strappo brutale quanto di una dissolvenza indolore. Poi però, di punto in bianco, senza alcuna avvisaglia, uno di questi rapporti si protrae oltre il consueto. In maniera inconsapevole, naturale, si stabilisce via via una più marcata intimità reciproca, una sintonia più profonda. E noi ne restiamo avvinti. Nessuno, adesso come adesso, è in grado di dire dove potrà arrivare quest’avventura con mister Giampaolo. Molto difficilmente raggiungerà le vette toccate dalla nostra storia d’amore più grande e travolgente: quella con zio Vuja. Ma non è escluso che possa emulare quelle vissute con Eriksson e Novellino. In ogni caso, si può già dire che era dai tempi di Mazzarri che non ci ritrovavamo coinvolti in un rapporto un po’ più stabile e duraturo. E anche se siamo lontani dalle 9 settimane e mezzo di passione con Iachini, questa seconda estate trascorsa con Giampaolo ci sta regalando un sorprendente affiatamento. Il ritorno a bottino pieno da Firenze è lì a testimoniarlo».

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Diario di Bordo, 20/08/2017 – Il Benevento è il quattordicenne che si presenta al primo giorno di superiori con la faccia deformata dall’acne, due peli in croce a circondargli la bocca e un’aria smarrita da cui traspare l’eccitazione per l’esordio tra i grandi. Noi invece siamo tra i veterani dell’istituto. Conosciamo quelle aule e quei corridoi come le nostre tasche, abbiamo la patente nel portafoglio, la sigaretta tra le labbra e il nostro “primo giorno” è ormai sepolto nel remoto. Il rituale vorrebbe che salutassimo l’arrivo dei “primini” con le consuete persecuzioni goliardiche di puro “nonnismo”, tramandate di generazione in generazione, che atterriscono gli imberbi già dal giorno successivo alla promozione nei racconti di chi li ha preceduti. Juke-box umani, rivisitazioni di mitiche scene cinematografiche, flessioni e umiliazioni corporali assortite. Qualcosa, insomma, che metta in chiaro e senza equivoci le gerarchie. E invece alla fine ci limitiamo a uno scappellotto, un “coppino”, come si usa dire. E lo facciamo senza nemmeno troppa convinzione, distrattamente. Forse perché assorti da speranze a cui non siamo ancora in grado di dare solide fondamenta. Forse perché, in fondo, serpeggia anche un vago timore di ritrovarci un giorno questo brufoloso nanerottolo come compagno di classe.

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